Se è vero che al Comune e all’Azienda Sanitaria spettano vari compiti di vigilanza e di prevenzione nonché di cattura dei cani randagi, tuttavia il semplice fatto che un evento dannoso sia stato provocato da un cane randagio non può automaticamente comportare la responsabilità degli enti tenuti al controllo del randagismo, a meno che di non trasformare la responsabilità colposa in una responsabilità sostanzialmente oggettiva. Infatti, la responsabilità per i danni causati dagli animali randagi è disciplinata dalle regole generali di cui all’art. 2043 c.c., e non da quelle stabilite dagli art. 2051 e 2052 c.c. – non applicabili in considerazione della natura di detti animali e dell’impossibilità di ritenere sussistente un rapporto di proprietà o di uso in relazione ad essi, da parte dei soggetti della pubblica amministrazione preposti alla gestione del fenomeno del randagismo – sicché presuppone l’allegazione e la prova, da parte del danneggiato, di una concreta condotta colposa ascrivibile all’ente e della riconducibilità dell’evento dannoso, in base ai principi sulla causalità omissiva, al mancato adempimento di una condotta obbligatoria in concreto esigibile, mentre non può essere affermata in virtù della sola individuazione dell’ente al quale è affidato il compito di controllo e gestione del fenomeno del randagismo, ovvero quello di provvedere alla cattura ed alla custodia degli animali randagi. Nella fattispecie di illecito aquiliano che viene così configurandosi spetta dunque all’attore, in base alle regole generali, allegare e dimostrare la specifica condotta (attiva o omissiva, in violazione di un obbligo) dei convenuti, il nesso causale tra tale condotta ed il danno, la sua ingiustizia e l’imputabilità all’autore in termini di dolo o colpa.
NDR: in argomento Cass. 31957/2018.
Tribunale di Lecce, sentenza del 18.5.2023, n. 1489
Per accedere ai contenuti, acquista l’accesso alla banca dati per 1 anno