La questione sottoposta all’esame del collegio riguarda la nozione di centro abitato contenuta nell’art. 2, comma 7, D.Lgs. n. 285/1992. Partendo dal dato letterale di tale norma, è stato chiarito che le strade urbane di cui al comma 2, lett. D), E) ed F), del medesimo articolo, sono sempre comunali quando siano situate nell’interno dei centri abitati, eccettuati i tratti interni di strade statali, regionali o provinciali che attraversano centri abitati con popolazione non superiore a diecimila abitanti; ne consegue che, ai fini dell’individuazione dell’ente proprietario della strada inclusa nel centro abitato di un Comune non è sufficiente il mero dato topografico, ma è necessario accertare se il Comune abbia un numero di abitanti superiore o inferiore a diecimila. Poi, con specifico riferimento al comma 7, si è precisato, in modo inequivoco, che il limite di 10mila abitanti non dev’essere riferito al comune nella sua interezza, ma alla singola frazione attraversata dalla strada e topograficamente separata dal comune di appartenenza.
NDR: in senso conforme alla prima parte della massima Cass. 10 marzo 2006 n. 5235, 30 marzo 2010 n. 7742 e 2 febbraio 2023 n. 3144; alla seconda Cass. 3144/2023, 7742/2010 e 5235/2006 cit.
Cassazione civile, sezione terza, ordinanza del 26.6.2024, n. 17668
…omissis…
Fatti di causa
1. Ba.Lu. conveniva in giudizio il Comune di Capaccio Paestum esponendo che, nel novembre 2014, mentre si accingeva ad attraversare a piedi Via Della Repubblica, cadeva procurandosi lesioni personali a causa di buche presenti sulla strada.
Il Comune costituitosi eccepiva il difetto di legittimazione passiva per essere la strada luogo dei fatti di proprietà della Provincia di Salerno (SP 277).
Il Giudice di Pace di Salerno, con la sentenza n. 5435/2016, riconosceva la legittimazione passiva del Comune e accoglieva la domanda attorea, dichiarando la responsabilità del Comune e condannandolo al risarcimento del danno.
2. Il Tribunale di Salerno, con la sentenza n. 1997/2021 del 17 giugno 2021, ha accolto il primo motivo di appello del Comune, ritenendo dimostrata la proprietà della Provincia sulla strada dove si è verificato l’incidente, come desumibile dalla documentazione prodotta dal Comune, circostanza peraltro non soggetta a contestazione tra le parti.
Inoltre, il Tribunale ha anche escluso che il Comune potesse essere responsabile del fatto sotto altri profili, non essendo stato provato né che i lavori sulla strada fossero stati eseguiti dal Comune, né che la disconnessione del piano stradale fosse dipesa proprio da detti lavori.
Il Giudice di appello, quindi, assorbiti gli altri motivi, ha accolto l’impugnazione, rigettando l’originaria domanda di controparte.
3. Avverso tale sentenza Ba.Lu. propone ricorso per Cassazione sulla base di un motivo.
3.1. Il Comune di Capaccio Paestum resiste con controricorso, e ricorso incidentale illustrato da memoria.
Il Collegio si è riservato il deposito nei successivi sessanta giorni.
Ragioni della decisione
4. Ricorso Principale.
4.1. Con il primo ed unico motivo ai ricorso, il ricorrente principale lamenta, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., la violazione e falsa applicazione dell’art. 2, comma 7, D.Lgs. n. 285/1992.
Sostiene che il Tribunale, accogliendo il gravame proposto dal Comune, avrebbe fornito una lettura erronea di tale norma, in quanto, a suo avviso, essa qualificherebbe come comunali le strade che percorrono il centro abitato di un comune con popolazione complessiva superiore a 10mila abitanti, e non già, come statuito nella pronuncia gravata, quando il solo centro abitato ha una tale densità di popolazione.
Nel caso, poiché l’incidente si è verificato in una via del centro storico del Comune di Capaccio Paestum, che ha una popolazione superiore a 10mila abitanti, detta via avrebbe automaticamente natura comunale, a prescindere quindi dal numero di abitanti di quel centro storico.
4.1.1. Il motivo è infondato.
La questione sottoposta all’esame del collegio riguarda la nozione di centro abitato contenuta nell’art. 2, comma 7, D.Lgs. n. 285/1992.
Sul punto, la giurisprudenza di legittimità, partendo dal dato letterale di tale norma, ha chiarito che “le strade urbane di cui al comma 2, lett. D), E) ed F), del medesimo articolo, sono sempre comunali quando siano situate nell’interno dei centri abitati, eccettuati i tratti interni di strade statali, regionali o provinciali che attraversano centri abitati con popolazione non superiore a diecimila abitanti; ne consegue che, ai fini dell’individuazione dell’ente proprietario della strada inclusa nel centro abitato di un Comune non è sufficiente il mero dato topografico, ma è necessario accertare se il Comune abbia un numero di abitanti superiore o inferiore a diecimila” (v. principio affermato da Cass. civ., Sez. III, 10 marzo 2006, n. 5235; poi, Cass. civ., Sez. II, 30 marzo 2010, n. 7742; da ultimo richiamato in Cass. civ., Sez. III, Ord., 2 febbraio 2023, n. 3144).
Poi, con specifico riferimento al comma 7, ha precisato, in modo inequivoco, che il limite di 10mila abitanti “non dev’essere riferito al comune nella sua interezza, ma alla singola frazione attraversata dalla strada e topograficamente separata dal comune di appartenenza” (cfr. Cass. civ. n. 3144/2023 cit.; Cass. civ. n. 7742/2010; Cass. civ. n. 5235/2006 cit.).
Da tali coerenti argomentazioni e convincenti conclusioni non offre il ricorso elementi idonei per discostarsi.
Nel caso di specie, dalla lettura della sentenza impugnata, emerge che il Comune, depositando la deliberazione della Giunta Comunale n. 96/1996, ha fornito puntuale prova sia della ripartizione del suo territorio in 13 centri abitati, sia della densità di popolazione di tali singoli centri, ciascuno non superiore ai 10mila abitanti. Dunque, il Tribunale ha correttamente interpretato il comma 7 del citato art. 2, motivando la sua decisione in modo chiaro, lineare e rispettoso del c.d. “minimo costituzionale”, atteso che ha indicato le ragioni del suo convincimento e spiegato l’iter logico-argomentativo del suo ragionamento, fondato sulle risultanze probatorie in atti (che dimostravano, per l’appunto, la citata divisione del Comune in più frazioni, ciascuna con meno di 10mila abitanti) (v. pp. 7-11, sentenza impugnata n. 1997/2021).
Aggiungasi che quello sui presupposti dei limiti dimensionali per la configurazione della titolarità del bene integra un apprezzamento di merito, riservato al solo giudice del gravame, sicché l’esame delle censure sarebbe comunque precluso in questa sede, potendo il giudice di legittimità controllare la sola congruenza della decisione gravata ai principi di diritto che regolano la prova (cfr. da ultimo, Cass. civ., Sez. II, 22 marzo 2024, n. 7721; Cass. civ., Sez. II, Ord., 6 marzo 2024, n. 5976; Cass. civ., Sez. II, 27 febbraio 2024, n. 5202; Cass. civ., Sez. lav., 31 gennaio 2024, n. 2872; Cass. civ., Sez. II, Ord., 27 novembre 2023, n. 32798; Cass. civ., Sez. II, 27 settembre 2023, n. 27432).
Principi che sono stati ampiamente rispettati dal Tribunale.
5. Ricorso incidentale.
5.1. il Comune propone ricorso incidentale con cui denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 91 e 92 c.p.c. e il difetto assoluto di motivazione in relazione agli artt. 111 Cost. e 132 c.p.c. (art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c.).
Lamenta che la statuizione in punto di compensazione delle spese di lite sarebbe apodittica e incomprensibile, atteso che non sussisterebbe alcuna giurisprudenza ondivaga sull’interpretazione della disciplina normativa applicata al caso de quo, per cui il giudice del gravame avrebbe, in modo inammissibile, esercitato il suo potere discrezionale di compensazione (cfr. pp. 16 e 17, controricorso con ricorso incidentale).
5.1.1. Il ricorso incidentale del Comune è fondato.
Il vizio di motivazione della sentenza ricorre quando il giudice, in violazione di un obbligo di legge, costituzionalmente imposto, omette di illustrare l’iter logico seguito per pervenire alla decisione assunta, ossia di chiarire su quali prove o motivi ha fondato il proprio convincimento e sulla base di quali argomentazioni è pervenuto alla propria determinazione.
Pertanto, la sanzione di nullità colpisce non solo le sentenze che siano del tutto prive di motivazione da un punto di vista grafico o quelle che presentano un “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e che presentano “una motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile” (Cassazione SS.UU. n. 8053/2014), ma anche quelle che ne contengono una meramente apparente, perché dietro la parvenza di una giustificazione della decisione assunta, la stessa non consente di “comprendere le ragioni e, quindi, le basi della sua genesi e l’iter logico seguito per pervenire da essi al risultato enunciato”, non assolvendo in tal modo alla finalità di esternare un “ragionamento che, partendo da determinate premesse pervenga con un certo procedimento enunciativo”, logico e consequenziale, “a spiegare il risultato cui si perviene sulla res decidendi” (Cassazione SS.UU. n. 22232/2016), non potendosi lasciare all’interprete il compito di integrarla con le più varie, ipotetiche congetture.
Con la sentenza n. 20849/2020, la Corte di Cassazione ha affermato che, secondo il precedente insegnamento della massima giurisprudenza di legittimità, “la motivazione è solo apparente, e la sentenza è nulla perché affetta da “error in procedendo”, quando, benché graficamente esistente, non renda, tuttavia, percepibile il fondamento della decisione, perché recante argomentazioni obbiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento, non potendosi lasciare all’interprete il compito di integrarla con le più varie, ipotetiche congetture” Cass. n. 1756/2006, Cass. n. 16736/2007, Cass. SS.UU. 22232/2016 e n. 9105/2017, secondo cui ricorre il vizio di omessa motivazione della sentenza, nella duplice manifestazione di difetto assoluto o di motivazione apparente, quando il giudice di merito ometta di indicare, nella sentenza, gli elementi da cui ha tratto il proprio convincimento ovvero indichi tali elementi senza una approfondita disamina logica e giuridica, rendendo in tal modo impossibile ogni controllo sull’esattezza e sulla logicità del suo ragionamento; Nel caso di specie il giudice dell’appello si è sottratto a tali indicazioni, limitandosi a riferirsi ad una “ondivaga giurisprudenza di merito sull’interpretazione della disciplina normativa applicata”, di cui non fornisce peraltro indicazioni e che quindi lascia solo vagamente ipotizzata, senza rendere in alcun modo comprensibile il percorso logico seguito o indicare la giurisprudenza ondivaga cui faceva riferimento.
La motivazione, pertanto, non attinge il minimo costituzionale idoneo a sottrarla alle critiche mossele ed il motivo di doglianza deve essere accolto, con cassazione della decisione del giudice di appello in punto di spese di lite.
Peraltro, poiché non sono necessari altri accertamenti di fatto ed alla luce degli elementi a disposizione può provvedersi al riguardo, il carico delle spese va regolato complessivamente in ragione della soccombenza dell’originario attore, secondo la liquidazione, per i gradi di merito ed il presente giudizio di legittimità, reputata equa come in dispositivo.
6. Il ricorso principale va, quindi, rigettato, mentre quello incidentale va accolto, con decisione nel merito e rideterminazione del carico delle spese di lite.
7. Infine, per la natura della causa petendi, va di ufficio disposta l’omissione, in caso di diffusione, delle generalità e degli altri dati identificativi del ricorrente principale, ai sensi dell’art. 52 D.Lgs. 196 del 2003.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso principale, accoglie il ricorso incidentale e cassa la sentenza gravata in ordine alle spese di lite; decidendo nel merito, condanna l’odierno ricorrente principale al pagamento delle spese in favore della controparte, che liquida in € 1.205 per il giudizio di primo grado, in € 2.430 per il giudizio di appello, ed in € 1.486 – oltre € 200 per esborsi – per il giudizio di legittimità, in ogni caso oltre rimborso forfetario per spese generali ed altri accessori previsti per legge. Dispone che, ai sensi dell’art. 52 D.Lgs. 196 del 2003, in caso di diffusione del presente provvedimento siano omessi generalità ed altri dati identificativi del ricorrente principale. Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17 della l. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del solo ricorrente principale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma del comma 1-bis del citato art. 13.